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L’essere abbandonato dal suo creatore, codice di riconoscimento 0808191, aveva atteso segretamente quel momento: un nido, una trappola, della carne fresca da consumare. La sventurata preda, il ragazzo chiamato Kahran Bekker, nel giro di pochi secondi era stato completamente assorbito trasformandosi in un nuovo corpo ospite. Mentre le sue giovani gambe venivano assalite dai crampi, le pupille fissarono il vuoto con l’impotenza riflessa nello sguardo vitreo. L’ossessione di 0808191 e il rimpianto del giovane Kahran si fusero assieme, strettamente, finché fra i due non vi furono più confini che li tenessero distinti.

Kahran si rialzò, molto lentamente. Dal bordo del labbro che si era morso quand’era caduto sui rifiuti gocciolava un filo di sangue fresco, ma il ragazzo non se ne curò. Guardando solo per un istante le gocce rosse come se fossero qualcosa di raro e insolito, le ripulì con deliberata lentezza col suo pollice e poi, raccolta fra le mani la palla caduta a terra, girò sui tacchi senza esitazione incamminandosi sulla via del ritorno.

 

Kahran Ramsus si agitò nel mezzo del sogno. Hyuga Rikudo e Sigurd Harcourt, che dormivano ciascuno ad appena cinque metri da lui, non si accorsero di quella sua irrequietezza. Le ali nere di quell’incubo lo avevano ormai completamente ricoperto, senza che riuscisse a ritrovare il modo per svegliarsi.

Gli apparve ripetutamente l’immagine di un falco implume che beccava il cibo. Vide, anche, l’ombra di un ragno che avvinghiava la preda. Predatore e cibo, cacciatore e preda. Quale dei due egli fosse non riusciva a comprenderlo. Non riusciva a spiegarsi se quel corpo che stava avendo l’incubo fosse quello di 0808191 o del povero Kahran Bekker né chi fosse se stesso, e nel suo agitarsi che non trovava voce versò lacrime ancora e ancora.

Kahran, Kahran, Kahran. Per quante volte quel sogno si ripetesse, non riusciva a capire dove si trovava. Nella sua bocca si diffondeva un retrogusto dolceamaro, che per quante volte deglutisse non scompariva. Un sapore. Un’umana sensazione di sgradevolezza. Anche in quel momento, tuttavia, avvertiva qualcosa di umano strisciare nelle profondità del suo essere. Senza trovare aiuto nella sua debole opposizione, tornò a ricadere in una profonda confusione.

 

Tutte le memorie susseguitesi dopo l’evento nella discarica scivolarono nel mezzo delle ali di tenebra una dopo l’altra. Il ragazzo tornò a casa con la palla nuova e lucida e innumerevoli graffi sul corpo. Entrò in una delle adorabili case costruite in stile semicoloniale nel distretto della classe media; i suoi giovani passi fecero ondeggiare le margherite che coloravano di bianco l’aiuola, spandendone al contempo il dolce profumo. Una farfalla blu cobalto che in quel momento si trovava sui petali, tutt’a un tratto caduta a malgrado della mancanza di vento, smise di muoversi come se fosse stata una cosa artificiale. Per qualche motivo, quell’istante gli era rimasto impresso nella memoria con particolare nitidezza.

Entrato nella cucina ben tenuta, Kahran Bekker trasse dal frigorifero un frappé alla vaniglia e ne sorbì un sorso. Quella bevanda che sua madre, la signora Bekker, aveva riposto lì per il suo unico figlio e che un tempo gli sembrava avere un gusto e un odore completamente diversi, gli risultò ora sgradevole. Ne versò il resto del lavandino, e toccò l’interruttore dello scarico. Accompagnata da un lieve ronzio, la soffice crema venne risucchiata nelle tubature. Il ragazzo restò a fissare il piccolo vortice senza muovere un dito.

Era spazzatura, spazzatura, spazzatura. Quando l’ultima goccia candida fu scomparsa, si volse per recarsi nel salotto dove si trovavano i suoi genitori. Non ricordava di aver visto quei due volti. Non chiamò sua madre come faceva sempre. Soltanto il ricordo di una lingua di fiamma sfavillava ancora e mandava fumo nella sua mente. Tempo dopo, il signore e la signora Bekker furono ritrovati tra le macerie della loro casa in fiamme e Kahran Bekker, quindicenne, rimase praticamente solo.

Assegnato a un tutore in ossequio alla legge, desiderò di essere ammesso nella Jugend. I suoi voti eccellenti e le sue credenziali gli permisero di essere scelto senza sforzo. Nella sua nuovissima uniforme della Jugend il ragazzo, che a seguito della morte dei genitori aveva richiesto una modifica del suo stato di famiglia, scrisse in bella grafia il nome “Kahran Ramsus” sul registro.

 

Si contorse nelle increspature di quel vivido incubo. Le lenzuola color avorio, secche e fredde, erano zuppe del sudore della sua figura. Nonostante lo colpisse l’aria sempre più pungente del condizionatore, la sua anima era ancora imprigionata nel tramonto rovente di una giornata estiva. Quel giorno, nella sua vecchia casa che vedeva per l’ultima volta, aveva continuato a gridare senza emettere voce. Era se stesso, e allo stesso tempo la cosa che lo divorava. La sua stessa mano che appiccava il fuoco alla propria casa si levò come in una scena al rallentatore. Il tocco sul suo braccio che senza emettere suono scansava i propri genitori indugiava ancora in un qualche ricordo distante. Fermati, fermati, fermati... quella è la mia... la mia... la mia...

A chi apparteneva quella voce che lanciava innumerevoli grida spezzate? Ciò che era in origine non era forse scomparso quel giorno nella discarica? Ma allora, chi diavolo era lui? Da dove veniva quella creatura, allo stesso tempo ciò che la divorava e ciò che da essa veniva divorata?

Nel corso delle rimembranze del suo passato, ora una vaga e indistinta sequela di giornate, smise di porsi anche quelle domande. L’unica cosa certa erano le sensazioni che provava nel qui e nell’ora. E quella parola ripetuta: spazzatura. Spazzatura. Spazzatura.

Notte dopo notte, aveva maturato il desiderio di seppellire in qualche modo quel suo incubo che emetteva un fetore di corruzione. C’era il suo corpo, una mosca posata al di sopra, e di nuovo il brivido nel constatare che era lui stesso. Trasportato dall’orrore e dall’odio, si lasciò sfuggire un singhiozzo.

“Kahr... Kahr!”

Un braccio solido e tiepido lo afferrò dal mondo esterno che l’incubo non raggiungeva. Quel vigoroso calore lo richiamò nella realtà dalla maledizione del sonno profondo e impenetrabile. Kahran Ramsus si costrinse ad aprire le palpebre: proprio sopra di lui c’era il viso bruno dell’amico, e sulla spalla la mano che lo stringeva saldamente.

Il ragazzo, con un’espressione arcigna per la mancanza di sonno, gli disse bruscamente, con la voce impastata di chi si è appena svegliato:

“... Piantala di fare tutto questo casino!”

Conclusa la sua lamentela verso un intontito Ramsus, l’amico tornò semisveglio com’era a stendersi sul proprio letto. Ramsus, che si era alzato a sedere, lentamente ringraziò dal profondo del cuore la voce irritata dell’amico che lo aveva salvato dall’incubo che lo avviluppava. Fu grato per quel soccorso inaspettato che aveva i toni della lamentela, anche se l’amico, che soffriva gli effetti dell’astinenza da Drive, avrebbe dovuto conoscere bene egli stesso l’ostinazione di quegli incubi.

Per far sì che le ali nere dell’incubo non venissero ancora, chiuse gli occhi abbracciandosi le spalle ruvide per la pelle d’oca. Come per erigere una fortezza contro un nemico invisibile, che non era l’aria gelida, si aggrappò con forza al soffice lenzuolo.

Il nemico, però, non si trovava al di fuori. La verità inaccettabile sarebbe tornata ad assalirlo nell’incubo sotto nuove spoglie. Finché avesse continuato a vivere, quella maledizione non sarebbe sparita. Spazzatura. Spazzatura. Spazzatura.

Terrorizzato dal ricordo di quel pigro giorno d’estate, pianse in silenzio, senza fermarsi.

 

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